Ascoltare la forma
Martina Corgnati
"La musica" - scrive Wassily Kandinsky nel Lo spirituale nell’arte - "salvo poche eccezioni è già da alcuni secoli l’arte che non usa i suoi mezzi per imitare i fenomeni naturali ma per esprimere la vita psichica dell’artista e creare la vita dei suoni".
Kandinsky è convinto che questa sia la finalità ultima e suprema dell’arte: sottrarsi all’atavico lavoro mimetico nei confronti della natura e dedicarsi all’espressione della necessità interiore, sorta di soglia o frontiera fra la soggettività dell’artista, lo Zietgeist e l’istanza evolutiva, spirituale, che abita sempre negli uomini di ogni epoca. La musica, priva di referente, immateriale e dotata di un immenso potere ("il suono musicale giunge direttamente all’anima", sostiene infatti in un altro passo) fra i tutti i linguaggi artistici è il più efficace, il più diretto, il più puro; e pertanto il più capace e adatto a raggiungere questo scopo importante. Per questa ragione, le arti visive dovrebbero prenderla ad esempio sulla strada del perfezionamento spirituale, lasciarsi guidare dalla sottigliezza pervasiva della musica per cercare di elevarsi, uscendo dall’ambito di influenze limitanti e materialistiche pur senza abdicare al loro specifico linguaggio.
Questo è possibile! Perché esiste "un’affinità fra le arti, in particolare musica e pittura. Da questa singolare affinità è certamente nata l’idea di Goethe che la pittura debba avere il suo basso continuo: un’affermazione profetica che è un presagio della situazione della pittura oggi. Siamo all’inizio di un percorso che porterà la pittura, con le sue sole forze, a diventare un’arte astratta e a realizzare finalmente una composizione puramente pittorica", continua Kandinsky; e il primo frutto di questo sguardo rivolto alla musica è stata l’arte astratta, anzi proprio la sua: le Impressioni, le Improvvisazioni e le Composizioni. Un atto di consapevole, responsabile libertà che ha aperto una delle strade più importanti e produttive per la ricerca artistica del Novecento.
Vero è che, lungo questa strada, le cose non sono affatto rimaste le stesse: l’arte è drasticamente cambiata. La musica anche. Tentativi successivi di tornare sulle proprie tracce ristabilendo gli antichi legami, che al tempo del Blaue Reiter erano stati quasi di parentela, hanno dato risultati grandemente imprevisti e perfino sconcertanti: i lavori di Fluxus, la radio music di John Cage o le composizioni per elicottero di Stockhausen.
Ma non è proprio tutto così: qualcuno, protetto all’ombra della propria discrezione, continua forse a richiamarsi all’affinità antica, dando vita a lavori che parlano ancora di amicizia, di intimità fra arte, pittura, scultura e musica. Domenica Regazzoni è fra queste rare figure. Forse non avrebbe potuto essere altrimenti per lei che ha trascorso l’intera esistenza immersa nella musica e nella sapienza artigianale del padre, grande liutaio. Da non musicista, Domenica Regazzoni ha visto, conosciuto, coltivato una straordinaria intimità con la musica, i suoi santuari e i suoi strumenti. Le sue opere nascono da questo, crescono in un ambiente attraversato, impregnato di musica, consapevole delle sue tiranniche leggi, dei suoi umori, delle sue estasi e delle sue stagioni. E tuttavia sono lavori pieni di silenzio. Non a caso Medardo Rosso dice (e la frase è riportata dalla stessa Regazzoni in uno dei suoi cataloghi) che "la musica ti porta al silenzio dell’immagine". C’è da qualche parte, insistente, un invito alla contemplazione, all’attenzione, all’apprezzamento di circostanze minime, sottili, impalpabili. L’opera sembra sempre proporsi sul filo della rischioso e incerto della variazione su un tema limitato: il legno, spesso sotto forma di tavoletta, di superficie su cui incastonare l’opera ma anche parte dell’opera stessa; il violino o la sua memoria, il colore, la carta e qualche volta le circostanze naturali. Penso, per esempio, a quello straordinario nido e a quel ceppo d’albero che l’artista ha trasformato in strumento impossibile, annidandovi appunto un ricciolo di violoncello e fondendo poi il tutto in bronzo, ottenendo un effetto quasi surrealista che avrebbe conquistato Breton e Man Ray. Domenica Regazzoni non esclude incursioni in questi territori dell’Unheimlich conferendo loro, tuttavia, di preferenza una sfumatura di ironia e di tenerezza.
Tutto all’opposto dell’atteggiamento prevalente oggi fra i suoi “colleghi”, attenti all’aspetto comunicativo, persino pubblicitario dell’opera ben più che alla sua consistenza e alla sua sostanza, l’artista dedica una cura quasi maniacale a ogni dettaglio del lavoro che non potrebbe mai essere delegato a terzi, coltiva la sapienza manuale e un magistero artigianale che è la sua prima e sola garanzia di riuscita. Colpisce, per esempio, e impressiona favorevolmente (ancora di più in un’epoca come questa, in cui gli artisti più pagati del mondo non hanno la minima idea su come realizzare le loro stesse opere e alcuni si permettono persino di dire che il gusto è roba da gelatai) la sua conoscenza dei legni, delle loro caratteristiche, del loro colore e resistenza. Domenica Regazzoni annota infatti sempre il tipo di essenza impiegata in ogni lavoro, l’abete per esempio, più ruvido e consistente, oppure l’acero, più sericeo e levigato, morbido. Ogni legno le offre un primo tema fondamentale, un punto di partenza cromatico e tattile su cui accordare forme e immagini; una sensibilità che deriva probabilmente dalla cultura paterna, del liutaio che conosce le risonanze e le vibrazioni del legno, la sua resistenza e duttilità.
Senza questa antica, indispensabile familiarità con i materiali, il lavoro di Domenica Regazzoni non avrebbe senso anzi non sarebbe nemmeno possibile: nella sua pratica infatti ogni minima variabile riveste un’importanza grandissima, che può decidere della riuscita o del totale fallimento di un’opera: nei piccoli acquarelli, per esempio, basta una pennellata di troppo, una nuance troppo intensa per distruggere un equilibrio delicatissimo, impalpabile, che può essere alterato (o completato) soltanto dal lavoro successivo; come una nota, dopo una pausa, completa e risolve quella precedente in una concatenazione melodica, piena di significato. La forma melodica infatti è una buona metafora per figurarsi questo modo di procedere: come una nota deriva in qualche misura dall’altra pur restandone autonoma e libera, così un’immagine può trarre dall’altra la propria ragion d’essere, la propria esigenza intima cui la precedente, già definita in sé, non avrebbe più potuto assolvere.
Finite in sé ma anche parti di un tutto “aperto”, in divenire, queste carte sono appunto complete e risolte in se stesse ma sono anche leggibili come passaggi di uno svolgimento melodico, di una concatenazione di eventi visivi piccoli ed intensi. Piccoli: Domenica Regazzoni privilegia infatti i formati che consentono l’intimità, un approccio riservato e personale, un contatto quasi tattile che, con rare eccezioni, sono anche quelli degli assemblages e delle sculture. Il violino è uno strumento di piccole dimensioni ma il suo suono intenso e pervasivo si propaga a distanze inimmaginabili. È un po’ lo stesso effetto che l’artista ricerca: i suoi oggetti devono essere sufficientemente concentrati per produrre le giuste risonanze, anche in senso associativo: un violino bianco e silenzioso, diceva una volta, ricorda un paesaggio di neve; il rosa pallido o l’azzurro che sconfina impercettibilmente nel grigio riporta forse a una sensibilità giapponese, prossima a quegli haiku che l’artista ha infatti accompagnato in uno dei suoi precedenti viaggi d’immagine.
È Gillo Dorfles ad aver chiarito con la consueta precisione ed efficacia la qualità speciale di questa sensibilità “estetica, non solo plastica ma insieme visiva, ornamentale e acustica”. Una sensibilità che si traduce anche in rigore, in incrollabile esigenza di perfezione, rinnovata continuamente, ad ogni nuovo incontro con l’opera. Da questa serietà si articola sia il solido rapporto con la tradizione che Domenica Regazzoni intrattiene (la tradizione artistica delle avanguardie ma anche quella artigianale della liuteria), sia la sua notevole originalità, la propositività paziente, costruttiva e aperta al futuro.
E in questo momento di radicale, perfino inconsapevole nichilismo, le siamo grati di ricordarci che tutto questo è ancora possibile.