Domenica Regazzoni
Roberta Tosi
Bellezza.
In quale altro modo si potrebbe parlare del percorso intrapreso da Domenica Regazzoni, se non come di un percorso nella bellezza? Di una rivelazione in ossequio all’incanto sonoro generato dalla musica, dall’arte, che a esse sola ritorna?
«La musica ci insegna la cosa più importante che esista: ascoltare.», diceva Ezio Bosso, e non c’è dubbio che il cammino compiuto da quest’artista sia all’insegna dell’ascolto. Quello appreso fin da piccolissima, in una famiglia dedita a quest’arte assoluta, vissuta in prima persona. L’ascolto è stata ed è la sua cifra dell’anima, la costante che sopravanza la contingenza e la immette in una traccia feconda. È ciò che le ha permesso di incontrare, sentire e interpretare, con gli strumenti a lei più cari, altri maestri di sonorità potenti e componimenti arditi come Lucio Dalla e Mogol. Non si può infatti guardare all’arte di Domenica Regazzoni senza percepire il ritmo sotteso di una sinfonia che impregna la sua espressività artistica di coloriture armoniche e complicità sensoriali, senza fraintendimenti. L’opera va infatti compresa nella sua interezza. Tutti i sensi qui allora si ritrovano coinvolti, poiché la sua è una vera e propria chiamata alla partecipazione, a una vocazione che inizia da un suono e si conclude in una gestualità necessaria. Come necessario è il respiro, contrappeso che muove il principio di ogni pensiero, ritmo che s’incardina in ogni composizione. A cominciare da quelle in cui davvero il suono trova la sua rispondenza nel colore e ne insegue la melodia, i virtuosismi, gli affondi. Sembra insinuarsi e riecheggiare una nota frase di Paul Klee, uno che di musica, non a caso, ne sapeva qualcosa: «L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.». In questo incontro con l’invisibile di ogni componimento, Regazzoni sfida la temporalità, la composizione e la spazialità, principi in cui l’arte solitamente è imbrigliata, per affidarsi a nuovi linguaggi, nuove affinità. Nel farlo cerca la sfida, la sfrontatezza con la materia. Il dialogo, perfino il duello. E dalle atmosfere rarefatte ed emozionali, dagli abbrivi e dalle ripartenze trae un’energia aurorale che la spinge a indagare nuovi guadi, passaggi e differenti orizzonti. La sua ricerca sull’essere umano, la lotta con la sostanza che imprigiona e custodisce, a tratti libera ma sopravvive tesa, porta l’artista lombarda a confrontarsi non solo coi colori e le sperimentazioni ma anche con quelle tracce di mondo e terra trattenute da reliquiari imprevisti: garze, fili, oro, rame, gesso, iuta… Da qui il passo a intraprendere una dimensione scultorea satura e luminosa si fa dunque breve. Bronzo, ferro, legno: nuove dimensioni e appropriazioni dello spazio, che abitano lo spazio, diventano quasi un affronto all’arte sempre più fisico e incarnato.
Le mani, come quelle di un musicista, spostano e creano nuovi plastici rimandi, formano linguaggi per narrare l’inesprimibile, affidandosi a forme che investono la scena del mondo. Vengono alla luce opere che vibrano di sguardi e silenzi. E torna la musica, sebbene non se ne sia mai andata, preponderante in ogni linea, in ogni vertice spezzato e ricomposto perfino in componimenti frammentati, attraversati da oro e polvere, quasi fossero impastati dell’essenza di ogni essere umano. Risuona l’intima, segreta, melodia di ogni corda, frammenti di un suono profondo e universale, luce che è nostalgia già qui e ora, porta dell’inizio di ogni sogno e di ogni viaggio.